Conclusione

L'idea di questa analisi è nata durante la prima lunga clausura da Covid 19 del marzo 2020. Avevo comprato anni prima Tutto Sherlock Holmes, di Arthur Conan Doyle, pubblicato dalla Newton Compton Editori e ora pareva essere arrivato il momento di leggerlo con comodo; ma non avevo scorso molte pagine che ero stato infastidito da tutta una serie di clamorose incongruenze. Apprezzo sinceramente la linea editoriale della Newton Compton, ma è altrettanto certo che la revisione dei testi della casa editrice romana non sempre sia ottimale, quindi ho pensato immediatamente a banali sviste della traduzione e mi sono andato a cercare gli originali scoprendo withastonishment, direbbe il buon Watson, che le incongruenze erano nell'originale e che la Newton Compton aveva tradotto con la massima fedeltà. A questo punto mi sono fatto questa domanda: per quale magia da una serie di romanzi e racconti mediocri - perché lo sono - che lo stesso autore non amava e giudicava scadenti, è nato il personaggio più noto, più amato e più vitale di sempre?

Ho letto gli orginali e due traduzioni, confrontandone anche altre nei punti nevralgici, ho analizzato, tradotto, e l'unica risposta sensata è: tutto merito di John Watson.

Holmes sembra scherzarci sopra:

Alas, that I should have to show my hand so when I tell my own story! It was by concealing such links in the chain that Watson was enabled to produce his meretricious finales.
...
And here it is that I miss my Watson. By cunning questions and ejaculations of wonder he could elevate my simple art, which is but systematized common sense, into a prodigy. When I tell my own story I have no such aid.

Ahimè, narrando da me la mia storia, devo giocare a carte scoperte! È nascondendo tutti gli anelli della catena che Watson ottiene i suoi finali a sorpresa.

...
E ecco che mi manca il mio Watson. Con domande argute ed esclamazioni meravigliate, sa elevare la mia banale arte, che altri non è che un sistematico buon senso, in un prodigio. Quando sono io a raccontare la mia storia non ho certo un tale aiuto.

(p. 870-871)

ma grazie al consueto acume ha rivelato il segreto del suo successo.

Ma c'è anche chi apprezza Watson più di me: tre film hanno contribuito più di altri ad arricchire il personaggio di Sherlock Holmes; uno è il pluricitato A seven-per-cent solution, nato come romanzo, che pur rimanendo rispettosissimo del canone scioglie i molti nodi che avvolgono la personalità di Sherlock Holmes. Uno è The private life of Sherlock Holmes, di Billy Wilder. Wilder ha fatto film migliori ma, a parte che ci sono scene da antologia che potrebbero giocarsela con la corsa delle bighe di Ben Hur, tipo quella  di Watson che si scatena con le ballerine del Bolshoi, man mano sostituite da ballerini quando Holmes mette in giro la voce di una loro presunta omosessualità, è anche il primo film che sdogana Holmes dalla sua seriosità, evidenziandone il senso dell'umorismo che senza dubbio possiede. Ma a mettere il dito nella piaga è Without a clue, di Tom Eberhardt, che ribalta i ruoli, perché è Watson a essere un genio che risolve i casi servendosi di un prestanome che in realtà è un attore fallito, ubriacone e donnaiolo.

Ho ripetuto più volte, e credo di averlo dimostrato, che Holmes è debitore di Dupin e di Poe in generale; ebbene, confrontiamo Sherlock Holmes col suo prototipo.

Anche il narratore delle avventure di Dupin è un amico del detective dilettante che divulga le straordinarie capacità del suo coinquilino, ma vediamo in che modo.

Così inizia a raccontare l'anonimo narratore dei Delitti della Rue Morgue (prescindiamo dal testo a fronte perché ai fini della nostra analisi è irrilevante):

 

"Le caratteristiche dell'intelligenza che si suol definire analitica sono per se stesse poco suscettibili di analisi. Le possiamo apprezzare solo attraverso i loro effetti. Fra le altre cose sappiamo che, per chi le possiede al sommo grado sono fonte del più vivo diletto. Così come un uomo robusto si compiace della sua prestanza fisica e si delizia con quegli esercizi che richiedono l'azione dei suoi muscoli, così l'analista trova il suo piacere in quell'attività dello spirito che consiste nel districare. Si diletta anche con occupazioni più banali, purché mettano in gioco il suo talento. Lo affascinano gli enigmi, gli indovinelli, i rebus e nel risolverli mostra un tale grado di perspicacia che per la mente comune può sembrare prodigioso. I suoi esiti, frutto del metodo nella sua forma più essenziale e profonda, hanno tutta l'aria di un'intuizione. La facoltà di ri-soluzione è, se possibile, rafforzata dallo studio della matematica e in particolare dal suo ramo più eminente che, ingiustamente e solo a causa delle sue operazioni retrograde, si chiama analisi come se si trattasse dell'analisi par excellence. Calcolare ovviamente non è come analizzare. Un giocatore di scacchi, per esempio, fa la prima cosa senza impegnarsi nella seconda. Dal che ne consegue che gli scacchi, per ciò che attiene il loro effetto sulla natura dell'intelligenza, sono erroneamente sopravvalutati. In questa sede non mi propongo di scrivere un trattato, mi limito a introdurre un racconto abbastanza singolare con alcune osservazioni preliminari; approfitterò perciò dell'opportunità per affermare che il massimo grado della ponderazione viene messo a dura prova dal modesto gioco della dama in forma ben più intensa e benefica di quanto faccia la studiata frivolezza degli scacchi."

 

Ci fermiamo qui, ma la lezione continua per altre due pagine. Io la trovo affascinante, confesso di ricordare quasi a memoria ampi brani, come quello che afferma la superiorità della dama sugli scacchi che ho troncato sul nascere, ma temo che non tutti la pensino come me. È più che probabile che la maggior parte dei lettori preferisca un narratore meno spocchioso che prima di tutto si presenti e cerchi di essere comprensibile a tutti.

Oltre a non presentarsi e soffermarsi all'infinito su argomenti che interessano solo pochi fissati, l'ignoto narratore di Poe è sempre molto reticente. Vediamo, per esempio, come introduce La lettera rubata, che ha sicuramente ispirato sia A scandal in Bohemia, sia The second stain.

Si inizia così: "Mi trovavo a Parigi nell'autunno del 18..., una notte dopo una sera ventosa, godevo del doppio piacere della meditazione e di una pipa di schiuma in compagnia del mio amico C. Auguste Dupin ... " poi ecco come viene presentato il caso: "Il ladro" disse G ... [G è il prefetto di Parigi] è il ministro D ..." Ma che anno è? chi è il prefetto G ... e chi il ministro D ... ?

Anche Watson prova a fare il misterioso:

It was, then, in a year, and even in a decade, that shall be nameless, that upon one Tuesday morning in autumn we found two visitors of European fame within the walls of our humble room in Baker Street. The one, austere, high-nosed, eagle-eyed, and dominant, was none other than the illustrious Lord Bellinger, twice Premier of Britain. The other, dark, clear-cut, and elegant, hardly yet of middle age, and endowed with every beauty of body and of mind, was the Right Honourable Trelawney Hope, Secretary for European Affairs, and the most rising statesman in the country.

Accadde dunque, in un anno di un decennio che rimarrà ignoto, che un martedì mattina autunnale la nostra umile dimora di Baker Street ospitasse due personaggi di fama europea. L'uno austero, altezzoso, dagli occhi aquilini e dominatori, altri non era se non l'illustre Lord Bellinger, due volte Premier della Gran Bretagna. L'altro, ombroso, lindo ed elegante, che aveva appena raggiunto la mezza età, dotato di ogni attrattiva di corpo e di mente, era l'Onorevole Trelawney Hope, Segretario per gli Affari Europei, lo statista emergente del paese.

(p. 567)

Tace l'anno, perfino la decade, si sa solo che è autunno come nella Lettera rubata; poi però spiattella chi siano i due alti personaggi interessati al furto della lettera oltretutto dicendo che Lord Bellinger è al suo secondo mandato e che Hope è l'astro nascente della politica inglese rivelandone pure l'età. Si fa presto a fare due più due e arrivare all'anno preciso.

A scandal in Bohemia, invece, è datato con precisione:

One night—it was on the twentieth of March, 1888—I was returning from a journey to a patient (for I had now returned to civil practice), when my way led me through Baker Street

Una sera - era il 20 marzo 1888 - stavo tornando dalla visita a un paziente, poiché ero tornato alla professione, quando mi trovai ad attraversare Baker Street.

(p. 123)

però si cerca di nascondere almeno l'identità dell'augusto cliente di Holmes, che si presenta mascherato; ma dura poco:

The man sprang from his chair and paced up and down the room in uncontrollable agitation. Then, with a gesture of desperation, he tore the mask from his face and hurled it upon the ground.

“You are right,” he cried; “I am the King. Why should I attempt to conceal it?”

L'uomo balzò dalla sedia e andò su e giù per la stanza con intensa agitazione. Poi, in un gesto di disperazione, si strappò la maschera dal viso e la scagliò a terra.

"Avete ragione," esclamò; "Io sono il re. Perché nasconderlo?"

(p. 125)

Dunque, mentre il narratore di Poe fa di tutto per mantenere le distanze e tenere all'oscuro il lettore, Watson è totalmente dalla sua parte. Anche quando non può rivelare alcun particolare per motivi di discrezione e di privacy si lascia sempre sfuggire qualcosa che fa capire tutto. Di ciò il lettore  si compiace perché viene sempre messo a parte di importanti segreti e con una formula che lo fa sentire degno di fiducia: è una cosa delicatissima, ma a te lo dico perché so che sei la discrezione in persona e mi posso fidare. Così Watson blandisce il lettore, che ne rimane conquistato.

Per corroborare la nostra apologia di John Watson, ci riferiremo a un articolo di Umberto Eco, pubblicato su Il Verri nel 1961, la famosa Fenomenologia di Mike Bongiorno[1], - almeno - un tempo era famosa. Eco analizza il personaggio "Mike Bongiorno", che allora era universalmente noto e amato, spiegandone il clamoroso successo. Si tratta di appena sei pagine, potremmo trascriverlo per intero, ma ci limiteremo ai passi più significativi. L'unica avvertenza è quella di leggere "John Watson", tutte le volte che nell'articolo sta scritto "Mike Bongiorno" e "Sherlock Holmes" quando sta scritto "Superman".

"L'uomo circuito dai mass media è in fondo, fra tutti i suoi simili, il più rispettato: non gli si chiede di diventare che ciò che egli è già. In altre parole gli vengono provocati desideri studiati sulla falsariga delle sue tendenze. Tuttavia, poiché uno dei suoi compensi narcotici a cui ha diritto è l'evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e i quali si possa stabilire una tensione. Per togliergli ogni responsabilità si provvede  però a far sì che questi ideali siano di fatto irraggiungibili, in modo che la tensione si risolva in una proiezione e non in una serie di operazioni effettive volte a modificare lo stato delle cose. Insomma, gli si chiede di diventare un uomo con il frigorifero e un televisore da 21 pollici, e cioè gli si chiede di rimanere com'è aggiungendo agli  oggetti che possiede un frigorifero e un televisore; in compenso gli si propone come ideale Kirk Douglas o Superman. L'ideale del consumatore di mass media è un superuomo che egli non pretenderà mai di diventare, ma che si diletta a impersonare fantasticamente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppur pensare di possederlo un giorno."

Potrebbe sembrare anacronistico accostare l'incipit dell'articolo di Eco al fenomeno "Sherlock Holmes" perché di fatto l'unico medium coevo alle prime storie di Holmes era la stampa (quotidiani e riviste), ancora niente radio o cinema, che erano imminenti ma non ancora mezzi di comunicazione di massa, né, soprattutto, televisione. Però, per quanto fosse limitato il numero dei media, è innegabile che il meccanismo fosse già innescato: l'ideale proposto, ossia Sherlock Holmes, è chiaramente irraggiungibile; le sue peculiarità sono tali e tante che potrebbe tranquillamente provenire da Krypton. Cerchiamo di essere più chiari con un esempio: l'ideale di un contemporaneo di Platone era diventare come Socrate, un obiettivo certamente raggiungibile, seppur con un notevole sforzo intellettuale e morale; quando invece il modello è Sherlock Holmes o Tex Willer o Superman, chiunque sa benissimo che si tratta di modelli umanamente irraggiungibili: loro sono supermen, noi siamo everymen; è qui che entra in ballo Watson:

"Il caso più vistoso di riduzione del superman all'everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest'uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta unita (questa è l'unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ad un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica: sembra quasi che egli si venda per quello che è e che quello che è sia tale da non porre in stato di inferiorità nessuno spettatore, neppure il più sprovveduto. lo spettatore viene glorificato e insignito ufficialmente di autorità nazionale il ritratto dei propri limiti. ... Di tutte le domande possibili su di un argomento sceglie quella  che verrebbe per prima in mente a chiunque e che  una metà degli spettatori scarterebbe subito perché troppo banale ... "

Questa, senza la minima necessità di ricorrere a esempi o paragoni, è l'esatta descrizione di Watson. Abbiamo già osservato più di una volta come un lettore medio possa facilmente comprendere ciò che per Watson continua a rimanere oscuro; qui sta la sua forza:

"Mike Bongiorno convince dunque il pubblico, con un esempio vivente e trionfante, del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti."

Di ben altra natura è il narratore delle avventure di Dupin, che non concede nulla al lettore, né fiducia, né empatia. Anch'egli, pur non raggiungendo le vette del suo amico, è mediamente superiore al lettore. Intanto scrive molto bene, cosa che non si può dire di Watson, ci se ne può rendere facilmente conto traducendo sia l'uno che l'altro: più parole si elidono dall'arruffata cronaca Watsoniana, più la traduzione scorre, mentre è impossibile alterare anche una virgola nei racconti di Poe senza rovinarli. A difesa di Watson, va detto che Poe non aveva i vincoli che aveva Conan Doyle; i tre racconti di Dupin hanno una lunghezza variabile: 35, 12 e 31 pagine, i racconti di Conan Doyle hanno una lunghezza standard, soprattutto i primi sono tutti di 18 - 19 pagine poi, quando hanno cominciato a illustrarlo, le pagine diventano 13 - 15 e  questo perché il suo è un prodotto essenzialmente seriale e deve seguire regole alle quali Poe non era subordinato. Qualcosa di analogo dei nostri tempi sono i fumetti seriali: gli albi di Tex sono immancabilmente di 110 pagine, si può giocare sul numero delle tavole, che di regola vanno dalle tre alle sei a pagina, raramente due, ma 110 pagine devono essere. Lo stesso doveva fare Conan Doyle, che aveva da riempire un certo numero di pagine; se la storia gli fosse venuta più lunga doveva togliere, se finiva prima doveva scrivere qualsiasi cosa, purché arrivasse a completare il suo spazio.

Questa conclusone rischia di essere ingenerosa con Holmes che invece ha tutte quelle peculiarità che gli hanno permesso di rimanere ben saldo nell'immaginario e che faranno da modello ai suoi innumerevoli epigoni: il suo aspetto fisico, il tabagismo, la cocaina, il violino, la sociopatia, gli sbalzi di umore, ecc., ma non dimentichiamo che lo vediamo con gli occhi di John Watson; nulla impedisce che anche Dupin avesse le sue peculiarità, ma il narratore non ne fa parola, si limita a descriverne il metodo, come Holmes avrebbe desiderato che facesse Watson, più volte rimproverato dall'amico di indulgere troppo nel romanzesco. E invece ha avuto ragione John Watson.